La Pesca di Pietro e Andrea
(Una versione riveduta e abbreviata di questo contributo è stato pubblicato in: M.C. e G. Pugliesi, L’icona de La pesca di Pietro e Andrea, «Munera» 2 [2014], pp. 87-98; www.muneraonline.eu)
(2012) Tempera all’uovo e doratura a bolo su tavola (tiglio), dim. 68x58.
L’icona è
stata commissionata dai pescatori dell’isola di Marettimo, per essere collocata
in una piccola chiesa medievale sita nel complesso monumentale di contrada
“Case romane”.
La chiesa[1], costruita
da monaci basiliani attorno all’XI secolo, è di piccole dimensioni (5,50x8,40
m), ha un impianto a croce greca atrofizzata, col quadrato centrale reggente la
cupola. Perfettamente orientata, presenta ad est un’abside semicircolare, con
finestra posta al centro. Tra il muro occidentale e il quadrato centrale e tra
quest’ultimo e l’abside, sono presenti due ambienti aperti dagli archi che
sorreggono la cupola fra i pilastri di nord e sud. La chiesetta, riaperta al
culto il 25 aprile 2010, è dedicata a San Pietro. La committenza ha richiesto
un’icona che raffigurasse san Pietro pescatore.
1. Criteri per
la realizzazione dell’icona
Nella
realizzazione dell’icona si è scelto orientarsi in base ad alcuni criteri
specifici:
- Aspettative della committenza
- Analisi del contesto storico,
culturale e architettonico in cui l’icona verrebbe collocata
- Fonti bibliche e teologiche
- Modello iconografico
Evidentemente
tutti questi criteri sono tra di loro intrecciati e agiscono nella
realizzazione finale dell’icona tutti insieme, anche se a titolo diverso.
1.1. Le
aspettative della committenza
Ciò che la
committenza chiede non è mai qualcosa di pienamente definito. Si configura
ovviamente come richiesta, ma non dice molto sulle modalità operative con cui
l’iconografo dovrà eseguire il suo compito. Capita che la richiesta del
committente abbia il volto del desiderio, il quale spera soltanto di essere
corrisposto adeguatamente; le forme della risposta, invece, sono scelte
dall’iconografo. In altri termini, la richiesta del committente non è come una
lista della spesa né è simile a un comando, ma somiglia all’attesa. Essa
vincola e nello stesso tempo libera l’iconografo: lo vincola, perché egli deve
necessariamente rispondere, e rispondere in modo adeguato, all’esigenza del
committente; e lo libera, perché egli deve interpretare le richieste del
committente in piena autonomia, trovando le soluzioni migliori a partire dalla
sua esperienza, dal suo bagaglio (tecnico e di fede) personale.
Dunque, in
questo caso, la committenza ha richiesto un’icona di san Pietro pescatore. La
fede nel santo trova le sue radici nella vita quotidiana, fatta di lavoro e di
vita familiare, in un’isola come quella di Marettimo in cui l’esperienza del
mare è totalizzante. La vicinanza del santo pescatore è percepita certamente
nella comune appartenenza al ceto dei pescatori, ma più in profondità, è
vissuta dalla contemplazione del destino luminoso che lo ha accolto: egli è
divenuto discepolo, apostolo, e che apostolo (!), addirittura segno eloquente
dell’apostolicità. La santità di Pietro dà certamente sicurezza ai pescatori;
c’è – è innegabile – una tendenza corporativistica in ognuno di noi, ma anche
questa attitudine inconsapevole ha un suo valore interiore: fare le stesse cose
è indice di comunanza, di comunione di vita e di condivisione di un destino.
Nello
stesso tempo, però, la santità di Pietro costituisce per i pescatori la
manifestazione di un compito: pescatori come Pietro, come lui santi. Nel “come”
è racchiuso il compito: “come”, infatti, significa “allo stesso modo”. Certo,
la figura storica di san Pietro è irripetibile, ma la sua chiamata, il suo
essere pescatore di uomini, la sua apostolicità hanno una portata generale per
i cristiani: seguire il Cristo e annunciarlo è proprio di ogni cristiano.
La vicinanza
a san Pietro, che i pescatori percepiscono, dunque, non è affatto qualcosa di
banale e neanche qualcosa di folcloristico, ma corrisponde alla chiamata alla
santità che ogni cristiano avverte, per bocca della Chiesa, per bocca dei
santi, da Gesù stesso.
Nell’icona,
dunque, si è scelto di evidenziare i seguenti aspetti della santità di Pietro:
insieme al suo ministero apostolico, quegli elementi che riguardano ogni
cristiano.
Inoltre,
la vita a contatto col mare, al contrario di quanto si potrebbe pensare, non
porta ad sua una banalizzazione, al disincanto della vita di mare e della vita
marina. In realtà, solo chi osservi la realtà con occhi “oggettivanti” può
venire condotto in una simile visione.
Il mistero
del mare – che, da quando per la prima volta l’uomo vi ha perso lo sguardo
scrutandone l’orizzonte, cattura l’uomo – è ancora più profondo per chi come
gli uomini di mare si spinge quotidianamente nel mare più alto. Chi lo abbia
almeno un poco percepito sa che il mistero non lo si esaurisce con definizioni,
ma lo si vive, intuendo molto e trovando se stessi, così la vita marina è la
fonte inesauribile e perenne delle tracce di un sentiero che dal pelo
dell’acqua non si vede, ma che in qualche modo indica una via per l’uomo.
Probabilmente, chi lo sa, il Signore ha creato il mare per poter parlare
all’uomo con metafore e con simboli marini, perché è più bella la vita col
mare.
La vita
marina, dunque, per gli uomini di mare non è scienza, ma sapienza. Così quello
che per un tassonomista è una specie ittica, per il pescatore è un “simbolo”,
egli vi sa scorgere molto di più di un pesce. Per questo motivo – e
contrariamente a quanto avviene solitamente nell’iconografia – in questa icona
i pesci sono raffigurati in modo quasi naturalistico: lo scorfano, la triglia,
la cernia e così via sono riconoscibili, eppure ogni pesce non è solo sé
stesso, ma anche altro da sé; chi vive il mare lo sa.
1.2. Il contesto
storico, culturale e architettonico
Un’icona
deve corrispondere in qualche modo anche al contesto in cui viene collocata.
Non si tratta solo di contesto architettonico, che pure è il riferimento
immediato. Lo spazio non è l’unica coordinata, in un luogo come quello di una
chiesa, conta molto anche il tempo, e con il tempo il mutare della cultura.
Le forme
di una chiesa non sono slegate dalla visione religiosa, all’interno della quale
essa è stata progettata e costruita: una chiesa basiliana necessariamente
mantiene nei suoi elementi architettonici e spaziali quelle coordinate
religiose, che erano vita quotidiana di quei monaci, della comunità ecclesiale
del tempo e della sua comprensione liturgico-teologica.
Spazio,
tempo e cultura sono, pertanto, tre coordinate da tenere in considerazione
quando si progetta un’icona per una chiesa.
Inoltre,
la precisa collocazione fisica nello spazio-chiesa, gioca un ruolo importante;
per esempio, va da sé che realizzare un’icona per l’abside richiede scelte
diverse rispetto a quelle richieste da un’icona da apporre in una nicchia
laterale.
L’icona
dei “Santi Pietro e Andrea pescatori” sarà posta sulla parete occidentale della
chiesetta, vicino al piccolo battistero di recente posizionamento.
Si è
scelto, pertanto, di realizzare un’icona di medie dimensioni, la tecnica il più
possibile prossima ai canoni medievali, nello specifico mediavali-siciliani
(meglio si vedrà nel paragrafo sui modelli iconografici). La vicinanza al
battistero, inoltre, ha reso più stringente la necessità di evidenziare alcuni
elementi battesimali.
1.3. Fonti
bibliche e teologiche
Sulle
fonti bibliche e teologiche si rimanda alla successiva “lettura dell’icona”. Si
anticipa, qui, soltanto che i temi principali della “pesca”, dei “pesci”, del
“mare”, della “vocazione” e del “ministero di Pietro” costituiscono dei nuclei sintetici e non degli aspetti accostati
o giustapposti. Ogni nucleo è sintetico, poiché è in grado di riassumere, in un
certo senso, tutto il mistero della salvezza. Ogni nucleo sintetico è pertanto
un nucleo simbolico, e riesce ad essere una chiave per la comprensione di tutto
il mistero. Questa capacità sintetica dei simboli, peraltro, non è attribuita
loro dall’esterno: il testo biblico stesso li costituisce dotati di questa
capacità e l’iconografo, il cristiano semplicemente li riconosce come tali.
1.4. Modello
iconografico
Ogni icona
si basa su un modello, su un “canone” istituito in precedenza. Questa
caratteristica essenziale all’iconografia cristiana viene molto spesso
fraintesa, poiché la si ritiene limitativa della creatività dell’artista.
Dietro questo pregiudizio si cela la teoria artistica tipica della modernità e
della post-modernità, secondo la quale l’artista sarebbe il cominciamento
assoluto dell’opera d’arte. Non possiamo spiegare qui dettagliatamente tutti i
motivi per cui si deve riconoscere che una tale visione non abbia fondamenti inoppugnabili,
ma si basi su una Weltanschauung che
ha visto la luce nel Rinascimento e si tramanda fino ai nostri giorni.
Diciamo
soltanto che l’iconografia cristiana si sottrae a questa visione dell’arte per
due motivi principali: il primo, essa ha a che fare con le fede, e la fede è costitutivamente una cosa da
tramandare, è tradizionale; non a caso l’icona viene associata alla Parola di
Dio: si dice che l’icona sia “Parola-immagine”, e la parola la si annuncia, la si
tramanda. Per tale motivo, il canone non può essere considerato una mera regola
formale o giuridica; esso corrisponde, invece, al criterio per la valutazione
della fedeltà dell’icona al vangelo.
Il
secondo, l’iconografia cristiana ha a che fare con la liturgia, con la Chiesa,
dunque, ha nativamente una connotazione comunitaria e comunionale; l’icona
nasce in un contesto comunitario come è quello liturgico-ecclesiale ed allo
stesso contesto è destinato; un’icona necessita di un “canone” esattamente
perché deve essere attestata, deve ricevere il consenso dei fedeli, della
Chiesa, deve corrispondere al sensus
fidelium.
Per la
realizzazione di questa icona, dunque, ci si è basati su un canone, su un
modello iconografico attestato: il mosaico della pesca miracolosa (Gv 21,1-13)
della Cattedrale di Monreale.
Si tratta
di un modello che corrisponde al contesto storico-culturale, visto che è un
mosaico medievale e siciliano. Si tratta, peraltro, di un’opera dalla
perfezione teologico-artistica indiscussa e, per certi versi, insuperabile.
Evidentemente,
pur nella fedeltà al modello, diversi adattamenti si sono resi necessari: dalla
distanza tra la tecnica musiva e quella pittorica, ai diversi riferimenti
scritturistici (che nel mosaico sono costituiti esclusivamente dal vangelo di
Giovanni) e quindi ai diversi elementi inseriti o evidenziati nell’icona
rispetto al mosaico.
Lettura dell’icona
1. La pesca e i
pesci
Il tema
più evidente dell’icona è quello di “Pietro e Andrea pescatori”, tuttavia, più
in profondità l’icona manifesta un tema ancora più specifico, quello cioè della
pesca di Pietro e Andrea.
Di questo evento l’icona vuole proporre una
lettura sintetica e sincronica. L’icona si riferisce, infatti, alle pericopi
evangeliche della “pesca” considerate contemporaneamente. Vuole proporre una
lettura sincronica dei passi sulla chiamata dei discepoli pescatori presenti
nei sinottici (Mc 1,16-18; Mt 4,18-20; Lc 5,4-11), insieme quello della pesca
miracolosa del vangelo di Gv (21, 1-13).
Accanto
all’origine evangelica, l’icona attinge, poi, alle fonti della tradizione
patristica intorno al tema della pesca, in relazione a quanto la pesca dice
riguardo sia alla vita del cristiano, sia al ministero proprio degli apostoli.
Per
coordinare tutte queste prospettive, ci facciamo aiutare dalle parole di san
Girolamo:
«E
camminando lungo il mare di Galilea, vide Simone e suo fratello Andrea che
gettavano le reti in mare: infatti essi erano pescatori» (Mc 1,16). Simone, che
non ancora si chiamava Pietro, perché non ancora aveva seguita la Pietra (cf.
Es 17,5-6; 1Cor 10,4) tanto da meritarsi il nome di Pietro, Simone, dunque, e
suo fratello Andrea, erano sulla riva e gettavano le reti in mare. La Scrittura
non precisa se, dopo aver gettato le reti, presero dei pesci. Dice soltanto:
«Vide Simone e suo fratello Andrea che gettavano le reti in mare: infatti essi
erano pescatori». Il Vangelo riporta che essi gettavano le reti, ma non
aggiunge che cosa presero con esse. Cioè, ripeto, prima della passione essi
gettarono le reti, ma non sta scritto se catturarono dei pesci. Invece, dopo la
passione, gettano le reti e prendono i pesci: tanti ne prendono che le reti si
rompono (cf. Lc 5,6; Gv 1,11). Qui, invece, si dice soltanto che gettavano le
reti, perché erano pescatori.
«E Gesú
disse loro: “Seguitemi, e vi farò pescatori di uomini”» (Mc 1,17). Oh, felice
trasformazione della loro pesca! Gesú li pesca, affinché essi a loro volta
peschino altri pescatori. Dapprima essi son fatti pesci, per poter essere
pescati da Cristo: poi essi pescheranno altri. E Gesú dice loro: «Seguitemi, e
vi farò pescatori di uomini». (Girolamo, Commento
al Vangelo di Marco, 1)
Il tema
della pesca è stato da sempre interpretato utilizzando come chiave di lettura
il detto di Gesù: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini» (Mt 4,19;
ma anche Mc 1,17 e Lc 5,11, che pure è rivolto solo a Simon Pietro). È stato,
cioè, sempre interpretato kerygmaticamente:
la pesca è la chiamata alla fede nel risorto, mediante il battesimo, mediante
l’acqua e lo Spirito (cfr. Gv 3,5). Il tema della pesca è, dunque, un tema eminentemente
battesimale.
I
pesci, quindi, sono gli uomini, e i vari tipi di pesce («ogni genere di pesci»,
Mt 13, 47) sono gli «uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Ap 5,9).
I pesci nella rete sono i cristiani. Pietro e Andrea, i “pescatori di uomini”,
sono essi stessi nella rete, essi non sono che pescatori a loro volta pescati:
lo stato di “pescati”, infatti, non è una fase provvisoria, né soltanto uno
stato iniziale, a cui segua uno superiore o più avanzato[2].
L’iniziazione cristiana è perenne. D’altra parte, lo stato del discepolo
cristiano – a differenza di altre forme di discepolato – è continua: nel
cristianesimo nessun discepolo supera il Maestro.
Dunque, in
questa icona, i due pescatori – Pietro e Andrea – nell’atto di pescare sono essi
stessi pescati, così, infatti, la rete, già immersa nell’acqua e piena di
pesci, avvolge anche la barca e con essa i pescatori.
I pesci
sono in totale dodici più due “pesci-pescatori”. Sei (più i due) sono nella
rete, sei fuori della rete. Il numero “6” nella simbologia numerica biblica è
il numero dell’umanità; essa tende al “7”, che è il numero della perfezione, ma
resta “6”.
Sei pesci,
dunque, dentro la rete, ma tutti sotto l’arco, nell’utero spirituale: il soffio
dello Spirito (l’acqua è mossa) è per tutti gli uomini, la chiamata è
universale. Alcuni rispondono ed entrano nella rete e diventano testimoni, ma
su tutti lo Spirito soffia il suo alito di vita.
I pesci
nella rete sono “6” più “2”: sono “8”. Sono otto e non sette, perché la grazia
è sempre sovrabbondante, e laddove il peccato dell’uomo è il tentativo di
usurpare il sette (“la perfezione”;
cfr. Adamo ed Eva e la tentazione: «Sarete come Dio», Gn 3, 5), la Grazia dona
all’uomo l’otto, che è la vita nuova
in Cristo (l’«ottavo giorno» nella teologia patristica indica il giorno della
risurrezione, il giorno senza fine della vita nuova).
*
* *
Eppure,
ancor prima che il discepolo, Cristo è il pesce, egli stesso si è fatto
“pesce”. Abercio di Gerapoli, in una delle più antiche testimonianze cristiane,
dice:
«Mi chiamo
Abercio, sono discepolo del Pastore santo [...] dappertutto mi conduceva la
fede dappertutto mi ha dato in cibo
Pesce di fonte grandissimo e puro pescato da vergine santa che sempre lo imbandisce agli amici ed
ha vino di delizia che offre insieme con il pane».
Certamente
l’uso paleocristiano di indicare il Cristo con il pesce – ancorché ricevere
significato grammaticale nell’acronimo «ichthys»
(“pesce”: Iesus Christos Theou Yios Soter,
Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore), che il termine greco permette di
istituire in relazione al Cristo –, trae origine dalla narrazione evangelica
stessa, allorché il pesce compare spesso soprattutto come cibo “cristologico”
(nella moltiplicazione dei pani: i «due pesci» dei sinottici, Mt 14,13-21; Mc
6,34-43; Lc 9,12-17).
Egli si è
fatto pesce, si è immerso nel mare dell’umanità e si è fatto pescare nel ventre
della Vergine Madre: il pesce diventa simbolo anche dell’incarnazione.
Egli
si fa pesce per nutrire tutti i cristiani (cfr. Abercio di Gerapoli): il pesce,
dunque, è anche simbolo eucaristico. Il riferimento è quindi battesimale ed
eucaristico, ma d’altronde il battesimo è connesso inscindibilmente
all’eucaristia.
Il Figlio
di Dio – è proprio così nell’icona – protende e immerge nell’acqua la mano, la
quale “parla” e dice: «Ichthys!», “Io
sono il Pesce!”.
Egli si è fatto pesce, e così ha reso
“commestibile” la parola di Dio. Egli, però, anche è stato fatto pesce, cioè è stato mandato: nell’icona, il Cristo
porta un rotolo, lo porta perché egli ci fa conoscere la parola del Padre:
«Tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15b).
Il rotolo,
poi, non è spiegato, perché non è un aspetto particolare dell’annuncio ad
emergere, ma è tutto il mistero di Gesù che si manifesta nel simbolo dell’Ichthys.
*
* *
Grande
pesce lui, noi piccoli pesci, ma tutti da lasciarsi mangiare.
Gesù è il
prototipo. Quando, dinanzi alle folle, ordina ai discepoli, non ancora riempiti
dello Spirito: «Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9,13), essi non sanno
cosa fare, infatti, non sanno ancora di essere pesci. Allora Gesù dà se stesso
nella “moltiplicazione” (che più che altro è una “partizione”) dei pesci (e dei
pani), e così mostra loro che si può e come si fa a diventare cibo per gli
altri.
Nel battesimo,
infatti, come pure nell’eucaristia diventiamo pesci nell’Ichthys.
2. «In verità, in verità io ti
dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio.
Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito».
(Gv 3,5-6)
La vita
nuova data nel battesimo è la vita «da acqua e Spirito»[3], è
vita di chi rinasce dall’alto: in questo modo nell’icona, la vasca battesimale
ha il suo fondo in alto ed è aperta nella parte inferiore. La forma ad arco
della vasca, inoltre, vuole suggerire l’idea dello Spirito che è ciborio (da kib orion «m’incurvo sopra»). In lui il
cristiano nasce e sempre ne è ricoperto.
La vasca
rovesciata, peraltro, è una figura che naturalmente tende ad annettere, ad
introdurre dentro di sé chi vi si ponga dinnanzi: il ciborio, che ricopre
dall’alto, porta chi, dal basso, gli sta di fronte e sotto a sentirsi coperto,
a sentirsi immesso – è una forma possibile della “prospettiva rovesciata”, che
non allontana gli oggetti verso il punto di fuga (come la prospettiva
standard), ma li avvicina verso il centro spirituale, che l’icona mostra.
Sono tre
le vasche presenti nell’icona.
La prima,
la più grande, è quella dello Spirito.
Ha struttura kenotica: essa fa
spazio, crea dentro di sé uno spazio per accogliere il mare con i suoi pesci.
Ha una forma evidentemente uterina, perché, come una madre, anche Dio fa spazio
dentro di sé ai propri figli. La vasca dello Spirito è resa feconda dal Figlio:
con la sua opera egli chiama alla vita nuovi figli e li genera.
La seconda
vasca è la rete, di cui nel vangelo è
scritto: «Il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che
raccoglie ogni genere di pesci» (Mt 13, 47). È il sacramento del battesimo, la
distinzione (che non è separazione) tra il momento dello Spirito e quello
sacramentale è esplicitato negli Atti: «Allora Pietro disse: “Chi può impedire
che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito
Santo?”. E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo.» (10, 47-48).
Se si vuole, questo secondo momento è il momento della risposta dell’uomo,
infatti, Cristo chiama tutti gli uomini, tocca poi all’uomo dare risposta
adeguata alla chiamata.
L’ultima
vasca è la barca dove i pesci
pescati, orientati verso il loro maestro (la barca si inclina [è incline] verso
il Cristo), docili alla sua voce, diventano pescatori, pescano nuovi pesci: è
la comunità dei credenti. La Chiesa è una comunità di pescatori.
Le tre
vasche in realtà formano un’unica vasca, tutte infatti sono concentriche, e le
più piccole sono contenute e generate da quella più grande. Ogni vasca
evidenzia un aspetto che è di tutte le vasche o, meglio, dell’unica vasca spirituale.
3. La Pietra e Pietro
«Ancora
si chiamava Pietro, perché non ancora aveva seguita la Pietra», scrive san
Girolamo e parlava del Pietro che non aveva ancora imparato a imitare il suo
maestro. Imitare è “fare come qualcuno”, allo stesso modo Pietro doveva
imparare ad agire come la Pietra agiva. La Pietra è Cristo, non a caso, la sua
immagine, nell’icona, è inscritta nella roccia.
Nell’icona,
poi, la palma fruttifera si trova dinnanzi al Cristo, radicata e fondata sulla
roccia. La palma, pianta paradisiaca, pianta simbolo della santità, simbolizza
la Chiesa. E la Chiesa, nel suo rimanere nella roccia-Cristo, è nello stesso
tempo protesa verso di lui: lo porge, indica la via per raggiungerlo, sa,
infatti, che al Cristo deve tutto e tutto a lui vuole ricondurre.
La
roccia unisce il Cristo alla Chiesa: la roccia è l’unità tra lo Sposo e la
Sposa. Così l’arco – che è il simbolo veterostestamentario dell’alleanza (Gn
9,8-17), e che, svelato e donato dal Figlio, è lo Spirito – unisce Cristo alla
Chiesa nella nuova alleanza sponsale e crea il nuovo utero per la nascita
dall’alto. La Palma-Chiesa, d’altra parte, fondata sulla roccia, diventa, in
virtù di questa unità, roccia ella stessa.
Il ventre
battesimale è, quindi, anche il ventre uterino della Chiesa, che, fecondata dal
suo Sposo, genera i suoi figli: i cristiani.
Simone,
dunque, (e ogni cristiano egualmente) diventa Pietro per annessione alla
Pietra, in virtù del battesimo, che è un battesimo da acqua e Spirito.
Il
rapporto tra la Pietra e le pietre è, inoltre, simbolizzato dai monti: al monte
Cristo-Pietra corrisponde quello della palma-Chiesa e fra loro i due più
piccoli di Pietro e Andrea, anche loro diventano piccole rocce.
Tutto
illumina e avvolge la luce increata del Padre, che nell’iconografia è
simboleggiata nell’oro. I monti nella simbologia biblica sono il luogo i cui
Dio incontra la terra e l’uomo, non a caso nella Bibbia tutte le teofanie
avvengono «sul monte». I monti, qui[4], sono
come dei rigonfiamenti della roccia, sono degli “embolismi spirtuali”: sono
monti allo stato gassoso, come dice il salmo: «Signore, abbassa il tuo cielo e
discendi, tocca i monti ed essi fumeranno» (144, 5). Come il Figlio è pieno di
Spirito Santo, allo stesso modo, per mezzo del Figlio anche la Chiesa e ogni
cristiano riceve in eredità lo Spirito e ne viene riempito. L’umanità è così
trasformata, trasfigurata dalla vita divina che la riempie.
4. «Sulla tua parola»
Lo si è
visto, Pietro è un “pesce-pescato pescatore”, tuttavia egli non pesca da sé, ma
esegue il mandato di Cristo: «Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato
ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i
popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,
insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 18, 18-20).
Che il
mandato del battesimo non sia un’iniziativa degli apostoli è chiarito anche da
S. Agostino, il quale, cercando di dirimere la questione del battesimo degli
eretici, riconosce il primato dell’azione di Cristo nel battesimo:
In
effetti, poiché il battesimo dato da un ministro spregevole vale tanto quanto
quello dato da un apostolo, si ammette, di conseguenza, che esso non è né
dell’uno e né dell’altro, ma di Cristo. (5,13.15)
Eppure,
quando essi battezzano, non battezzano essi, ma colui di cui Giovanni dice: È
lui che battezza (Gv 1, 33).[5]
L’azione
che compie Pietro (e quella in generale di ogni cristiano) è, dunque, un’azione
“simbolica” (in senso forte): vedi Pietro battezzare, ma egli lo può perché
Cristo primariamente battezza. In altri termini, Cristo battezza, Pietro
“con-battezza”.
Già nel
racconto della chiamata alla “pesca di uomini” Pietro getta le reti dicendo a
Gesù: «sulla tua parola getterò le
reti» (Lc 5,5; la parola è il logos, il verbo), come a dire: “Sei tu che peschi
attraverso di me”.
L’icona è
fedele a questa lettura: il Cristo dà ordine di pescare in virtù della sua
parola, cioè in virtù di sé stesso. Il rotolo, infatti, è inscritto nel suo
corpo: il corpo di Gesù Cristo è il rotolo stesso dispiegato, egli è il Verbo
di Dio manifestato pienamente.
“Sulla
Parola” Pietro getta le reti e in virtù della Parola egli pesca, perché l’esca
che attira i pesci è la Parola stessa. I pesci non entrano nella rete finché le
reti non sono gettate sulla Parola: fino a che Pietro non annuncia Gesù Cristo
le reti non si riempiono; quando invece i pesci, attraverso Pietro, ascoltano
la voce di colui che ritto in piedi, grida: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e
beva chi crede in me» (Gv 7, 37-38), allora quelli accorrono; come è noto, i
pesci hanno bisogno dell’acqua per vivere, ma questa acqua è superiore a
qualsiasi altra, questa è «acqua viva» (Gv 7, 37), «acqua di vita eterna» (cfr.
Gv 4, 14).
D’altra
parte, poi, la Parola è anche la rete con cui i pesci sono pescati. La Parola è
come una rete che una volta gettata nel mare «raccoglie ogni genere di pesci»
(cfr. Mt 13, 47). La Parola, infatti, è data per raccogliere tutti i figli
dispersi e farne un solo popolo. L’annuncio di
Gesù raccoglie, anzi Gesù stesso è l’annuncio, è la Parola che raccoglie gli
uomini, e li salva, facendone il nuovo popolo di Dio.
5.
Il centro dell’icona
Un’icona
ha una struttura spaziale diversa da come perlopiù si concepisce attualmente lo
spazio in pittura. A partire da un’impostazione prospettica, il centro è
costituito da ciò che si pone dinnanzi all’occhio del pittore, o di colui che
guarda, e tutte le figure del quadro sono inserite dentro un gioco di punti di
fuga e proporzioni geometriche molto rigidi: guardando un quadro è possibile
individuarne subito il centro geometrico.
Un altro
modo per focalizzare il centro di un quadro è poi la luce. A partire
dall’illuminazione dei personaggi e dei luoghi è possibile individuare il
centro di un tale dipinto; tuttavia la luce in questo caso è utilizzata come un
elemento scenografico, la luce è usata per enfatizzare il gioco prospettico.
Nell’iconografia
non è così. La struttura di un’icona non è prospettica, tant’è che si parla in
proposito di “prospettiva rovesciata”, tuttavia, in effetti, nel caso
dell’iconografia si tratta soprattutto di rovesciamento della mentalità prospettica, visto che
l’iconografia rifiuta l’impianto prospettico come per nulla corrispondente alla
natura della sua “rappresentazione” della realtà.
In passato
si diceva che prima di Giotto gli artisti non
conoscessero la prospettiva, ma, come dice Pavel Florenskij, gli artisti
prima di Giotto non volevano usarla, perché non la ritenevano degna
di entrare nella rappresentazione della realtà[6].
Dunque, nell’iconografia l’impianto geometrico tipico della prospettiva è del
tutto assente, soprattutto perché si rifiuta la rappresentazione geometrica
dello spazio.
In questo
modo, in un’icona possono essere presenti più centri, perché lo spazio non è
quello della “res extensa”, quello
omogeneo della geometria euclidea. Nell’iconografia lo spazio, piuttosto che quantitativamente, è connotato qualitativamente: i vari punti, i vari
soggetti posseggono delle qualità interiori, più che geometriche. Così avviene
che oggetti “prospetticamente” più lontani siano proporzionalmente più grandi
di oggetti più vicini; così avviene, anche che il centro dell’icona non sia
geometricamente posizionato, né che la luce sia utilizzata “scenograficamente”.
In questa
icona, Cristo è il pesce, è l’esca, è la rete, è il pescatore. Egli è la figura
più grande, è suo il movimento più ampio, anzi egli è il principio di ogni
movimento, egli è al centro di tutti movimenti inscritti nell’icona e ne
costituisce un elemento catalizzatore: i pescatori agiscono sul suo comando, i
pesci si muovono alla sua Parola, la palma verso di lui tende, al suo tocco
l’acqua è vivificata dallo Spirito, davanti a lui “i monti saltellano come
arieti” (cfr. sal 114). Per cominciare, quindi, si può dire che sia Cristo il
“centro” dell’icona.
Ma cosa
vuol dire questo, considerando che nell’icona il Cristo è posto a sinistra, in
una posizione laterale? Egli è al centro, ma nello stesso tempo è a sinistra,
come è possibile? E, poi, come mai proprio a sinistra?
Guardando
l’icona Cristo è a sinistra. Ma l’icona ci sta di fronte, e questo comporta che
per chi sta di fronte a noi – cioè per chi è al di là dell’icona – il Cristo è
a destra[7].
Dovremmo dire quindi che Cristo, in realtà, sta a destra.
Siamo
giunti così a cambiare lato, ma non si è chiarito ancora quale sia il senso.
Per
comprendere occorra capire a destra di cosa do di chi il Cristo si pone. Ci
risponde il Vangelo: Gesù Cristo è alla destra del Padre (cfr. Mc 16, 19; Lc
22, 69).
Ora,
questo suo essere “alla destra del Padre”, lo pone però al centro per la vita
dell’uomo: egli, infatti, è il “mediatore”: «Nessuno viene al Padre se non per
mezzo di me». In questo modo, egli sta alla nostra sinistra, ma nello stesso
tempo è per noi al centro.
Il Figlio,
dunque, apre al Padre, che è un altro centro dell’icona, anche se non lo si
vede, perché del Padre non c’è figura o immagine. La sua sola immagine (eikon, icona), infatti, è il Cristo:
“Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del
Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). E Gesù dice: “Chi vede me, vede
colui che mi ha mandato” (Gv 12,45).
Ma
nell’icona è posto anche un terzo centro: lo Spirito Santo. Anch’egli è al
centro, ma in altro modo. Dello Spirito è sempre difficile parlare, perché non
se ne ha neanche nella Bibbia una immagine distinta: lo Spirito è
inafferrabile. Nella Bibbia non se ne parla in figure fisse: è vento, è tuono,
è nube, è colonna di fuoco ed è fiammella, è colomba, è luce; è tutte queste
cose, ma nessuna lo definisce compiutamente. Egli è effuso, e per questo è diffuso;
allo stesso modo in questa icona lo Spirito è onnipresente e permea ogni ambito,
ogni figura: è il vento che vivifica l’acqua e muove la barca, è l’arco che
copre, è il ponte che unisce il Cristo alla Chiesa, è la rete che raccoglie i
pesci. Lo Spirito è la forza che agisce e che muove ogni cosa.
Nella
storia della teologia non si è mai affrontato in modo diffuso e veramente
approfondito il tema dello Spirito Santo. Per la Chiesa latina si parla
addirittura di «dimenticanza dello Spirito». Eppure, lo Spirito è, se si può
far passare la definizione, nella Trinità la persona “più trinitaria”, perché
se pure è possibile parlare del Padre senza parlare del Figlio e dello Spirito,
o anche parlare del Padre e del Figlio senza menzionare lo Spirito[8], non
si può, tuttavia, in nessun caso parlare dello Spirito senza parlare nello
stesso tempo e del Padre e del Figlio.
Non c’è,
dunque, contraddizione nel dire che il centro dell’icona è il Cristo e lo
Spirito, e che questi due centri rivelano il “primo”, che è il Padre. Centro
dell’icona è la Trinità: il Padre è ciò verso cui tutto tende, egli è origine e
fine; il Figlio è centro, perché è mediatore, attraverso di lui si giunge al
Padre; lo Spirito discende dal cielo e muove ogni cosa per ricondurla verso il
Padre. Tutto viene riassunto nell’”economia” trinitaria.
6. Il linguaggio del corpo
Nell’iconografia
tutte le parti corporee non coperte da veli posseggono un’importanza capitale,
il volto prima di tutto, le mani in secondo luogo, poi i piedi. Bisogna però
aggiungere che anche le vesti sono importanti e dense di senso.
6.1. Il volto e
il capo
I
punti più importanti di un’icona sono i volti, tant’è che esistono icone
costituite da soli volti. Questo avviene perché il volto è una sorta di “icona
dell’icona”. Come dicono i cristiani d’Oriente, nel volto è racchiuso il
“sembiante”: la somiglianza al “canone”, al modello la si vede nel volto (già
si è visto che “canone” sta principalmente per “canone scritturistico” o,
ancora meglio, per piena corrispondenza la Vangelo).
Ora,
l’iconografia cristiana condensa nel volto moltissimi dei suoi elementi tipici:
lo schiarimento, la prospettiva inversa, la proporzionalità simbolica, il
contegno stilistico.
Lo
schiarimento, che è la tecnica utilizzata in iconografia per dipingere le
immagini, consiste nel partire da un fondo scuro per poi passare, attraverso la
deposizione strati di colore successivi, a tinte più chiare fino ad arrivare a
linee completamente bianche, chiamate “luci”. Ora, questa tecnica è stata
scelta consapevolmente nell’iconografia cristiana, perché meglio corrispondeva
alla rivelazione; come questa, infatti, nello schiarimento, che potremmo anche
definire illuminazione[9], il
mistero di Dio viene alla luce, e si mostra.
I volti
vengono raffigurati in tre-quarti, mai di profilo, mai di fronte. Questo perché
i due occhi devono essere ben visibili e il “capo” è contemplato nella sua
interezza. La prospettiva inversa, di cui si è già parlato, nei volti è
applicata, per questo nelle icone insieme al volto del capo è visibile, in modo
prospetticamente scorretto, anche la nuca. Come dice Pavel Florenskij, nella
prospettiva inversa c’è perfetta consonanza alla vista umana, che è sempre
bioculare e sempre in movimento, così l’uomo non vede mai una persona o un
oggetto come in una foto, ma con visioni plurime e contemporanee.
La
proporzionalità simbolica è tipica dei volti (e del corpo) in iconografia. Il
volto non è raffigurato naturalisticamente, le sue proporzioni non sono
corrette dal punto di vista antropometrico.
Il volto è
luogo simbolico per eccellenza, esso è luogo di trasfigurazione. Per il santo,
luogo di trasfigurazione cristica, per il Cristo luogo di manifestazione della
sua divino-umanità. È per questo stesso motivo, i personaggi “non trasfigurati”
(i “non santi”) vengono raffigurati di profilo, piatti. Infatti, come poco si
ponevano alla luce («Si ostinano a fare il male, progettano di nascondere
tranelli; dicono: "Chi potrà vederli?"», Sal 64, 6), allo stesso modo
in loro poco c’è da contemplare.
I volti
hanno, inoltre, un’espressività tipica. Si definisce spesso “ieratica”, ma con
questa definizione non si fa altro che testimoniare l’incomprensione “moderna”
verso l’iconografia, e verso l’arte liturgica in generale. Si dice ieratica, ma
in realtà si dà una definizione per negazione: ieratica sta per “neutra”, cioè
né allegra né triste.
A
proposito dei volti nelle icone si dovrebbe parlare, invece, di “contegno”.
Contegno non è impassibilità, ma, al contrario, è “pathos” in pienezza; non è passività, ma al contrario, è piena
attività. Il contegno non è dispersione, ma è energia, attività e passione concentrate,
contenute, eppure agite. Il contegno è proprio dell’atleta, il quale, né prima
della partenza – quando ancora sono trattenute –, né alla fine della corsa –
quando sono già esaurite –, pieno di forze, corre.
Nell’iconografia,
i volti di Cristo, in primo luogo, e poi dei santi, sono volti pieni di tutti i
sentimenti, ma senza dispersione, né dissipazione, né prevaricazione. Per
questo motivo, le icone sanno parlare all’uomo in qualsiasi situazione o stato
d’animo egli si trovi.
6.2. Le mani
Anche le mani
sono molto importanti in iconografia. Nell’arte moderna le mani hanno una
funzione perlopiù “indicativa”, cioè hanno una funzione “segnica”. Siamo ormai
abituati a vedere mani di santi che indicano il cielo, o mani giunte in
preghiera, o mani che reggono una penna, nell’atto di scrivere.
Nell’iconografia le mani vengono definite “parlanti” e non hanno una funzione
accessoria, ma fondamentale. D’altra parte nella sua vita, Gesù ha spesso
predicato semplicemente muovendo le mani, come nel caso della adultera, in cui
egli scrive sulla sabbia, o nei vari miracoli in cui impasta terra, o manovra
gli arti dei malati e così via. Le mani, dunque, sono esse stesse luogo di
rivelazione di annuncio.
6.2.1. Le mani di Cristo
In
questa icona, le mani di Cristo – lo si è già visto – hanno posizioni
particolari: la destra è protesa e dice: «Ichthys!»,
«Io sono il pesce!». Nel protendere il braccio, la veste rossa si incurva, si
gonfia. Da sempre questo rigonfiamento della veste sotto il braccio viene letto
come il segno della “passione”. In questo contesto, però, aggiunge qualcosa in
più: Cristo si è fatto “Pesce”, nella “condizione di servo”, e si fa pesce da
mangiare, si fa cibo per l’uomo nell’offerta totale di sé, sulla croce. Per
questo, dicendo «Ichthys!», la veste
sotto il braccio s’incurva.
La mano
sinistra, invece, è poggiata sul ventre e regge il cartiglio arrotolato, che è
immagine del suo messaggio, del Vangelo. Il cartiglio è iscritto nel suo corpo:
egli stesso è il messaggio, egli è il Verbo. Ma il cartiglio incastonato nel
suo corpo, manifesta anche un senso ulteriore: il messaggio che è il Cristo, è
un messaggio che si è fatto cibo per l’uomo. Come Giovanni nell’Apocalisse,
infatti, il cristiano può dire: «Presi quel piccolo libro [...] e lo divorai».
6.2.2. Le mani degli apostoli

6.3. I piedi
I piedi di
Cristo poggiano su due rocce, che sono come due piccoli monticelli. I piedi
rivelano il fatto che egli “viene”, egli è “colui che deve venire”. Ma come
giunge? «Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline» (Ct 2,8).
I piedi
poi non sono evidenziati a caso. Il compito del messaggero è il cammino verso
il destinatario, e gli organi principali del cammino sono i piedi: il messaggio
ha bisogno di piedi che lo portino. Così Cristo, oltre che dal cartiglio, è
riconosciuto come il “messaggero” nei suoi piedi, infatti, come è scritto:
«Sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del
messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza». (Is 52,7).
I
piedi, poi, sono il segno dell’umanità: sono il luogo corporeo della forza
dell’uomo, quando sono saldi, ma anche, quando non lo sono, della sua
debolezza. I piedi, ben in vista, sono il simbolo della vera umanità di Cristo,
un’umanità però rinnovata, rinsaldata: egli infatti “ha i piedi stabiliti sulla
roccia” (cfr. Salmo 40,3), e “come i piedi di una cerva sulle alture cammina”
(cfr. Ab 3,19). E tuttavia, i piedi forti di Cristo si sono fatti deboli, egli
ha abbracciato la morte, per questo motivo l’unzione di Betania (Gv 12, 1-8) ha
un valore profetico: annuncia la morte e sepoltura di di Gesù.
7. La fruizione dell’icona
Qualsiasi
icona è strutturata in modo tale da riuscire a parlare nel modo in cui ciascuno
può recepirla. L’icona non forza nessuno a comprendere tutto, né ostenta tutto
di sé. Tutti i suoi segreti possono essere colti in modalità e tempi
differenti, nel modo più congeniale a chi vi si ponga dinnanzi. Come dicono i
cristiani d’Oriente, l’icona è una finestra: ci si può anche fermare a guardare
il telaio, il vetro, il materiale della finestra, e magari questo può anche
soddisfare chi la guardi, tuttavia il suo fine primario è far passare la luce,
un’icona è veramente tale se riesce far
passare la luce. La sua bontà (e bellezza) risiede nella sua capacità di essere
trasparente alla luce, alla luce del vangelo.
Si dice
questo, perché potrebbe sembrare che quello che si è detto sin qui sia
eccessivo, che ci siano troppe cose dentro questa icona. Ma la grande maggioranza
dei particolari, e della loro significazione, presenti nell’icona sono stati,
realmente, recepiti dall’iconografa attraverso il canone iconografico
attestato. Se vi è ricchezza di senso in ogni particolare, benché minino,
questo è un patrimonio che viene all’iconografia da lontano, precisamente dalla
stessa tradizione iconografica cristiana. Non si tratta, cioè, di inserzioni,
attribuzioni o allegorizzazioni escogitate dall’iconografa.
Compito
dell’iconografa è stato, invece, armonizzare gli elementi. Utilizzando una
metafora linguistica, si potrebbe dire che le regole grammaticali e il lessico
sono della tradizione iconografica, dell’iconografa, invece, sono le scelte
sintattiche, l’uso di quegli elementi. Occorre, peraltro, ricordare che il tema
di questa icona, sebbene i suoi elementi non siano radicalmente nuovi,
costituisce una sorta di novità – non ci sono icone a noi pervenute sulla
“pesca di Pietro e Andrea” –. L’iconografa ha dovuto, pertanto, rinvenire un
modello iconografico coerente con la grammatica iconografica e pertinente al
nuovo tema.
Non ci si
pone, inoltre, la questione se sia o no un’opera d’arte, né se l’iconografa sia
o no un’artista. L’iconografo è di per sé un esecutore, un trasmettitore,
perché sa che l’opera che egli compie lo precede e lo supera, allo stesso modo
in cui il messaggio evangelico, che costituisce il centro della sua arte, fonda
e apre il suo operare.
L’iconografo
sa di non essere il cominciamento assoluto della sua arte, ma soltanto un
anello della catena della tradizione ecclesiale. La sua opera, d’altra parte, è
opera d’arte solo se non appartiene all’artista, ovvero se riesce ad essere
un’opera ecclesiale, cioè avente la sua origine e il suo sbocco nella vita
della Chiesa.
L’icona,
lo si diceva, è come una finestra, la sua consistenza deve essere “poco
ingombrante”, deve essere trasparente, altrimenti non è una vera icona.
[1]
Si rimanda, per una descrizione dettagliata dell’area archeologica e della
chiesetta, al documentato articolo: F. Ardizzone – R. Di Liberto – E. Pezzini, Il complesso monumentale in contrada “Case
Romane” a Marettimo (Trapani). La fase medievale: note preliminari, in S.
Patitucci Uggeri (a cura di), Scavi
medievali in Italia, 1994-1995, «Atti della prima conferenza italiana di
archeologia medievale (Cassino, 14-16 dicembre 1995)», Herder, Roma 1998, pp.
387-424.
[2]
Il titolo dell’icona è, dunque, molto calzante: “la pesca di Pietro e Andrea” può voler dire sia il loro pescare che il loro
essere pescati.
[3]
«Spirito e vita» è un’endiadi: acqua e Spirito non sono semplicemente
accostati, bensì identificati – per questo motivo nell’icona l’acqua è “viva” e
si muove.
[4]
La forma dei monti è ripresa in modo fedele dai mosaici di Monreale.
[5]
Agostino, Sul Battesimo 6,28.54.
[6]
Cfr. P. Florenskij, La prospettiva
rovesciata e altri scritti sull’arte, Gangemi, Roma 1990.
[7]
Anche questo è un “rovesciamento” significativo: nell’icona non è l’osservatore
la causa della visione, egli vi si trova immesso, ma la realtà che si dà a
vedere precede la visione dell’osservatore. Non c’è un adeguamento all’occhio o
alla visione dell’osservatore, ma al contrario si richiede una “conversione”
dello sguardo.
[8]
Si può – come è successo nella storia – parlare solo di Dio (Padre), si può
parlare del Padre e del Figlio senza menzionare lo Spirito (in tutte le
controversie cristologiche il fulcro della questione era il rapporto tra Dio
Padre e Cristo), si può perfino imbastire una controversia sullo Spirito, ma
senza considerarne l’azione, come è avvenuto nel caso della controversia sul Filioque (la processione solo dal Padre
o dal Padre e dal Figlio).
[9]
Infatti, in Gesù Cristo, «Quelle cose che
occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha
preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo
dello Spirito» (1 Cor 2, 9-10).
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