La Pesca di Pietro e Andrea

(Una versione riveduta e abbreviata di questo contributo è stato pubblicato in: M.C. e G. Pugliesi, L’icona de La pesca di Pietro e Andrea«Munera» 2 [2014], pp. 87-98; www.muneraonline.eu)

(2012) Tempera all’uovo e doratura a bolo su tavola (tiglio), dim. 68x58.

L’icona è stata commissionata dai pescatori dell’isola di Marettimo, per essere collocata in una piccola chiesa medievale sita nel complesso monumentale di contrada “Case romane”.
La chiesa[1], costruita da monaci basiliani attorno all’XI secolo, è di piccole dimensioni (5,50x8,40 m), ha un impianto a croce greca atrofizzata, col quadrato centrale reggente la cupola. Perfettamente orientata, presenta ad est un’abside semicircolare, con finestra posta al centro. Tra il muro occidentale e il quadrato centrale e tra quest’ultimo e l’abside, sono presenti due ambienti aperti dagli archi che sorreggono la cupola fra i pilastri di nord e sud. La chiesetta, riaperta al culto il 25 aprile 2010, è dedicata a San Pietro. La committenza ha richiesto un’icona che raffigurasse san Pietro pescatore.

1.      Criteri per la realizzazione dell’icona
Nella realizzazione dell’icona si è scelto orientarsi in base ad alcuni criteri specifici:
-   Aspettative della committenza
-   Analisi del contesto storico, culturale e architettonico in cui l’icona verrebbe collocata
-    Fonti bibliche e teologiche
-    Modello iconografico
Evidentemente tutti questi criteri sono tra di loro intrecciati e agiscono nella realizzazione finale dell’icona tutti insieme, anche se a titolo diverso.

1.1.   Le aspettative della committenza
Ciò che la committenza chiede non è mai qualcosa di pienamente definito. Si configura ovviamente come richiesta, ma non dice molto sulle modalità operative con cui l’iconografo dovrà eseguire il suo compito. Capita che la richiesta del committente abbia il volto del desiderio, il quale spera soltanto di essere corrisposto adeguatamente; le forme della risposta, invece, sono scelte dall’iconografo. In altri termini, la richiesta del committente non è come una lista della spesa né è simile a un comando, ma somiglia all’attesa. Essa vincola e nello stesso tempo libera l’iconografo: lo vincola, perché egli deve necessariamente rispondere, e rispondere in modo adeguato, all’esigenza del committente; e lo libera, perché egli deve interpretare le richieste del committente in piena autonomia, trovando le soluzioni migliori a partire dalla sua esperienza, dal suo bagaglio (tecnico e di fede) personale.
Dunque, in questo caso, la committenza ha richiesto un’icona di san Pietro pescatore. La fede nel santo trova le sue radici nella vita quotidiana, fatta di lavoro e di vita familiare, in un’isola come quella di Marettimo in cui l’esperienza del mare è totalizzante. La vicinanza del santo pescatore è percepita certamente nella comune appartenenza al ceto dei pescatori, ma più in profondità, è vissuta dalla contemplazione del destino luminoso che lo ha accolto: egli è divenuto discepolo, apostolo, e che apostolo (!), addirittura segno eloquente dell’apostolicità. La santità di Pietro dà certamente sicurezza ai pescatori; c’è – è innegabile – una tendenza corporativistica in ognuno di noi, ma anche questa attitudine inconsapevole ha un suo valore interiore: fare le stesse cose è indice di comunanza, di comunione di vita e di condivisione di un destino.
Nello stesso tempo, però, la santità di Pietro costituisce per i pescatori la manifestazione di un compito: pescatori come Pietro, come lui santi. Nel “come” è racchiuso il compito: “come”, infatti, significa “allo stesso modo”. Certo, la figura storica di san Pietro è irripetibile, ma la sua chiamata, il suo essere pescatore di uomini, la sua apostolicità hanno una portata generale per i cristiani: seguire il Cristo e annunciarlo è proprio di ogni cristiano.
La vicinanza a san Pietro, che i pescatori percepiscono, dunque, non è affatto qualcosa di banale e neanche qualcosa di folcloristico, ma corrisponde alla chiamata alla santità che ogni cristiano avverte, per bocca della Chiesa, per bocca dei santi, da Gesù stesso.
Nell’icona, dunque, si è scelto di evidenziare i seguenti aspetti della santità di Pietro: insieme al suo ministero apostolico, quegli elementi che riguardano ogni cristiano.
Inoltre, la vita a contatto col mare, al contrario di quanto si potrebbe pensare, non porta ad sua una banalizzazione, al disincanto della vita di mare e della vita marina. In realtà, solo chi osservi la realtà con occhi “oggettivanti” può venire condotto in una simile visione.
Il mistero del mare – che, da quando per la prima volta l’uomo vi ha perso lo sguardo scrutandone l’orizzonte, cattura l’uomo – è ancora più profondo per chi come gli uomini di mare si spinge quotidianamente nel mare più alto. Chi lo abbia almeno un poco percepito sa che il mistero non lo si esaurisce con definizioni, ma lo si vive, intuendo molto e trovando se stessi, così la vita marina è la fonte inesauribile e perenne delle tracce di un sentiero che dal pelo dell’acqua non si vede, ma che in qualche modo indica una via per l’uomo. Probabilmente, chi lo sa, il Signore ha creato il mare per poter parlare all’uomo con metafore e con simboli marini, perché è più bella la vita col mare.
La vita marina, dunque, per gli uomini di mare non è scienza, ma sapienza. Così quello che per un tassonomista è una specie ittica, per il pescatore è un “simbolo”, egli vi sa scorgere molto di più di un pesce. Per questo motivo – e contrariamente a quanto avviene solitamente nell’iconografia – in questa icona i pesci sono raffigurati in modo quasi naturalistico: lo scorfano, la triglia, la cernia e così via sono riconoscibili, eppure ogni pesce non è solo sé stesso, ma anche altro da sé; chi vive il mare lo sa.

1.2.   Il contesto storico, culturale e architettonico
Un’icona deve corrispondere in qualche modo anche al contesto in cui viene collocata. Non si tratta solo di contesto architettonico, che pure è il riferimento immediato. Lo spazio non è l’unica coordinata, in un luogo come quello di una chiesa, conta molto anche il tempo, e con il tempo il mutare della cultura.
Le forme di una chiesa non sono slegate dalla visione religiosa, all’interno della quale essa è stata progettata e costruita: una chiesa basiliana necessariamente mantiene nei suoi elementi architettonici e spaziali quelle coordinate religiose, che erano vita quotidiana di quei monaci, della comunità ecclesiale del tempo e della sua comprensione liturgico-teologica.
Spazio, tempo e cultura sono, pertanto, tre coordinate da tenere in considerazione quando si progetta un’icona per una chiesa.
Inoltre, la precisa collocazione fisica nello spazio-chiesa, gioca un ruolo importante; per esempio, va da sé che realizzare un’icona per l’abside richiede scelte diverse rispetto a quelle richieste da un’icona da apporre in una nicchia laterale.
L’icona dei “Santi Pietro e Andrea pescatori” sarà posta sulla parete occidentale della chiesetta, vicino al piccolo battistero di recente posizionamento.
Si è scelto, pertanto, di realizzare un’icona di medie dimensioni, la tecnica il più possibile prossima ai canoni medievali, nello specifico mediavali-siciliani (meglio si vedrà nel paragrafo sui modelli iconografici). La vicinanza al battistero, inoltre, ha reso più stringente la necessità di evidenziare alcuni elementi battesimali.

1.3.   Fonti bibliche e teologiche
Sulle fonti bibliche e teologiche si rimanda alla successiva “lettura dell’icona”. Si anticipa, qui, soltanto che i temi principali della “pesca”, dei “pesci”, del “mare”, della “vocazione” e del “ministero di Pietro” costituiscono dei nuclei sintetici e non degli aspetti accostati o giustapposti. Ogni nucleo è sintetico, poiché è in grado di riassumere, in un certo senso, tutto il mistero della salvezza. Ogni nucleo sintetico è pertanto un nucleo simbolico, e riesce ad essere una chiave per la comprensione di tutto il mistero. Questa capacità sintetica dei simboli, peraltro, non è attribuita loro dall’esterno: il testo biblico stesso li costituisce dotati di questa capacità e l’iconografo, il cristiano semplicemente li riconosce come tali.

1.4.   Modello iconografico
Ogni icona si basa su un modello, su un “canone” istituito in precedenza. Questa caratteristica essenziale all’iconografia cristiana viene molto spesso fraintesa, poiché la si ritiene limitativa della creatività dell’artista. Dietro questo pregiudizio si cela la teoria artistica tipica della modernità e della post-modernità, secondo la quale l’artista sarebbe il cominciamento assoluto dell’opera d’arte. Non possiamo spiegare qui dettagliatamente tutti i motivi per cui si deve riconoscere che una tale visione non abbia fondamenti inoppugnabili, ma si basi su una Weltanschauung che ha visto la luce nel Rinascimento e si tramanda fino ai nostri giorni.
Diciamo soltanto che l’iconografia cristiana si sottrae a questa visione dell’arte per due motivi principali: il primo, essa ha a che fare con le fede, e  la fede è costitutivamente una cosa da tramandare, è tradizionale; non a caso l’icona viene associata alla Parola di Dio: si dice che l’icona sia “Parola-immagine”, e la parola la si annuncia, la si tramanda. Per tale motivo, il canone non può essere considerato una mera regola formale o giuridica; esso corrisponde, invece, al criterio per la valutazione della fedeltà dell’icona al vangelo.
Il secondo, l’iconografia cristiana ha a che fare con la liturgia, con la Chiesa, dunque, ha nativamente una connotazione comunitaria e comunionale; l’icona nasce in un contesto comunitario come è quello liturgico-ecclesiale ed allo stesso contesto è destinato; un’icona necessita di un “canone” esattamente perché deve essere attestata, deve ricevere il consenso dei fedeli, della Chiesa, deve corrispondere al sensus fidelium.
Per la realizzazione di questa icona, dunque, ci si è basati su un canone, su un modello iconografico attestato: il mosaico della pesca miracolosa (Gv 21,1-13) della Cattedrale di Monreale.
Si tratta di un modello che corrisponde al contesto storico-culturale, visto che è un mosaico medievale e siciliano. Si tratta, peraltro, di un’opera dalla perfezione teologico-artistica indiscussa e, per certi versi, insuperabile.
Evidentemente, pur nella fedeltà al modello, diversi adattamenti si sono resi necessari: dalla distanza tra la tecnica musiva e quella pittorica, ai diversi riferimenti scritturistici (che nel mosaico sono costituiti esclusivamente dal vangelo di Giovanni) e quindi ai diversi elementi inseriti o evidenziati nell’icona rispetto al mosaico.

Lettura dell’icona
1.      La pesca e i pesci
Il tema più evidente dell’icona è quello di “Pietro e Andrea pescatori”, tuttavia, più in profondità l’icona manifesta un tema ancora più specifico, quello cioè della pesca di Pietro e Andrea.
Di questo evento l’icona vuole proporre una lettura sintetica e sincronica. L’icona si riferisce, infatti, alle pericopi evangeliche della “pesca” considerate contemporaneamente. Vuole proporre una lettura sincronica dei passi sulla chiamata dei discepoli pescatori presenti nei sinottici (Mc 1,16-18; Mt 4,18-20; Lc 5,4-11), insieme quello della pesca miracolosa del vangelo di Gv (21, 1-13).
Accanto all’origine evangelica, l’icona attinge, poi, alle fonti della tradizione patristica intorno al tema della pesca, in relazione a quanto la pesca dice riguardo sia alla vita del cristiano, sia al ministero proprio degli apostoli.
Per coordinare tutte queste prospettive, ci facciamo aiutare dalle parole di san Girolamo:
«E camminando lungo il mare di Galilea, vide Simone e suo fratello Andrea che gettavano le reti in mare: infatti essi erano pescatori» (Mc 1,16). Simone, che non ancora si chiamava Pietro, perché non ancora aveva seguita la Pietra (cf. Es 17,5-6; 1Cor 10,4) tanto da meritarsi il nome di Pietro, Simone, dunque, e suo fratello Andrea, erano sulla riva e gettavano le reti in mare. La Scrittura non precisa se, dopo aver gettato le reti, presero dei pesci. Dice soltanto: «Vide Simone e suo fratello Andrea che gettavano le reti in mare: infatti essi erano pescatori». Il Vangelo riporta che essi gettavano le reti, ma non aggiunge che cosa presero con esse. Cioè, ripeto, prima della passione essi gettarono le reti, ma non sta scritto se catturarono dei pesci. Invece, dopo la passione, gettano le reti e prendono i pesci: tanti ne prendono che le reti si rompono (cf. Lc 5,6; Gv 1,11). Qui, invece, si dice soltanto che gettavano le reti, perché erano pescatori.
«E Gesú disse loro: “Seguitemi, e vi farò pescatori di uomini”» (Mc 1,17). Oh, felice trasformazione della loro pesca! Gesú li pesca, affinché essi a loro volta peschino altri pescatori. Dapprima essi son fatti pesci, per poter essere pescati da Cristo: poi essi pescheranno altri. E Gesú dice loro: «Seguitemi, e vi farò pescatori di uomini». (Girolamo, Commento al Vangelo di Marco, 1)
Il tema della pesca è stato da sempre interpretato utilizzando come chiave di lettura il detto di Gesù: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini» (Mt 4,19; ma anche Mc 1,17 e Lc 5,11, che pure è rivolto solo a Simon Pietro). È stato, cioè, sempre interpretato kerygmaticamente: la pesca è la chiamata alla fede nel risorto, mediante il battesimo, mediante l’acqua e lo Spirito (cfr. Gv 3,5). Il tema della pesca è, dunque, un tema eminentemente battesimale.
I pesci, quindi, sono gli uomini, e i vari tipi di pesce («ogni genere di pesci», Mt 13, 47) sono gli «uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Ap 5,9). I pesci nella rete sono i cristiani. Pietro e Andrea, i “pescatori di uomini”, sono essi stessi nella rete, essi non sono che pescatori a loro volta pescati: lo stato di “pescati”, infatti, non è una fase provvisoria, né soltanto uno stato iniziale, a cui segua uno superiore o più avanzato[2]. L’iniziazione cristiana è perenne. D’altra parte, lo stato del discepolo cristiano – a differenza di altre forme di discepolato – è continua: nel cristianesimo nessun discepolo supera il Maestro.
Dunque, in questa icona, i due pescatori – Pietro e Andrea – nell’atto di pescare sono essi stessi pescati, così, infatti, la rete, già immersa nell’acqua e piena di pesci, avvolge anche la barca e con essa i pescatori.
I pesci sono in totale dodici più due “pesci-pescatori”. Sei (più i due) sono nella rete, sei fuori della rete. Il numero “6” nella simbologia numerica biblica è il numero dell’umanità; essa tende al “7”, che è il numero della perfezione, ma resta “6”.
Sei pesci, dunque, dentro la rete, ma tutti sotto l’arco, nell’utero spirituale: il soffio dello Spirito (l’acqua è mossa) è per tutti gli uomini, la chiamata è universale. Alcuni rispondono ed entrano nella rete e diventano testimoni, ma su tutti lo Spirito soffia il suo alito di vita.
I pesci nella rete sono “6” più “2”: sono “8”. Sono otto e non sette, perché la grazia è sempre sovrabbondante, e laddove il peccato dell’uomo è il tentativo di usurpare il sette (“la perfezione”; cfr. Adamo ed Eva e la tentazione: «Sarete come Dio», Gn 3, 5), la Grazia dona all’uomo l’otto, che è la vita nuova in Cristo (l’«ottavo giorno» nella teologia patristica indica il giorno della risurrezione, il giorno senza fine della vita nuova).
* * *
Eppure, ancor prima che il discepolo, Cristo è il pesce, egli stesso si è fatto “pesce”. Abercio di Gerapoli, in una delle più antiche testimonianze cristiane, dice:
«Mi chiamo Abercio, sono discepolo del Pastore santo [...] dappertutto mi conduceva la fede dappertutto mi ha dato in cibo Pesce di fonte grandissimo e puro pescato da vergine santa che sempre lo imbandisce agli amici ed ha vino di delizia che offre insieme con il pane».
Certamente l’uso paleocristiano di indicare il Cristo con il pesce – ancorché ricevere significato grammaticale nell’acronimo «ichthys» (“pesce”: Iesus Christos Theou Yios Soter, Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore), che il termine greco permette di istituire in relazione al Cristo –, trae origine dalla narrazione evangelica stessa, allorché il pesce compare spesso soprattutto come cibo “cristologico” (nella moltiplicazione dei pani: i «due pesci» dei sinottici, Mt 14,13-21; Mc 6,34-43; Lc 9,12-17).
Egli si è fatto pesce, si è immerso nel mare dell’umanità e si è fatto pescare nel ventre della Vergine Madre: il pesce diventa simbolo anche dell’incarnazione.
Egli si fa pesce per nutrire tutti i cristiani (cfr. Abercio di Gerapoli): il pesce, dunque, è anche simbolo eucaristico. Il riferimento è quindi battesimale ed eucaristico, ma d’altronde il battesimo è connesso inscindibilmente all’eucaristia.
Il Figlio di Dio – è proprio così nell’icona – protende e immerge nell’acqua la mano, la quale “parla” e dice: «Ichthys!», “Io sono il Pesce!”.
Egli si è fatto pesce, e così ha reso “commestibile” la parola di Dio. Egli, però, anche è stato fatto pesce, cioè è stato mandato: nell’icona, il Cristo porta un rotolo, lo porta perché egli ci fa conoscere la parola del Padre: «Tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15b).
Il rotolo, poi, non è spiegato, perché non è un aspetto particolare dell’annuncio ad emergere, ma è tutto il mistero di Gesù che si manifesta nel simbolo dell’Ichthys.
* * *
Grande pesce lui, noi piccoli pesci, ma tutti da lasciarsi mangiare.
Gesù è il prototipo. Quando, dinanzi alle folle, ordina ai discepoli, non ancora riempiti dello Spirito: «Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9,13), essi non sanno cosa fare, infatti, non sanno ancora di essere pesci. Allora Gesù dà se stesso nella “moltiplicazione” (che più che altro è una “partizione”) dei pesci (e dei pani), e così mostra loro che si può e come si fa a diventare cibo per gli altri.
Nel battesimo, infatti, come pure nell’eucaristia diventiamo pesci nell’Ichthys.
2.      «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito». (Gv 3,5-6)
La vita nuova data nel battesimo è la vita «da acqua e Spirito»[3], è vita di chi rinasce dall’alto: in questo modo nell’icona, la vasca battesimale ha il suo fondo in alto ed è aperta nella parte inferiore. La forma ad arco della vasca, inoltre, vuole suggerire l’idea dello Spirito che è ciborio (da kib orion «m’incurvo sopra»). In lui il cristiano nasce e sempre ne è ricoperto.
La vasca rovesciata, peraltro, è una figura che naturalmente tende ad annettere, ad introdurre dentro di sé chi vi si ponga dinnanzi: il ciborio, che ricopre dall’alto, porta chi, dal basso, gli sta di fronte e sotto a sentirsi coperto, a sentirsi immesso – è una forma possibile della “prospettiva rovesciata”, che non allontana gli oggetti verso il punto di fuga (come la prospettiva standard), ma li avvicina verso il centro spirituale, che l’icona mostra.
Sono tre le vasche presenti nell’icona.
La prima, la più grande, è quella dello Spirito. Ha struttura kenotica: essa fa spazio, crea dentro di sé uno spazio per accogliere il mare con i suoi pesci. Ha una forma evidentemente uterina, perché, come una madre, anche Dio fa spazio dentro di sé ai propri figli. La vasca dello Spirito è resa feconda dal Figlio: con la sua opera egli chiama alla vita nuovi figli e li genera.
La seconda vasca è la rete, di cui nel vangelo è scritto: «Il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci» (Mt 13, 47). È il sacramento del battesimo, la distinzione (che non è separazione) tra il momento dello Spirito e quello sacramentale è esplicitato negli Atti: «Allora Pietro disse: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?”. E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo.» (10, 47-48). Se si vuole, questo secondo momento è il momento della risposta dell’uomo, infatti, Cristo chiama tutti gli uomini, tocca poi all’uomo dare risposta adeguata alla chiamata.
L’ultima vasca è la barca dove i pesci pescati, orientati verso il loro maestro (la barca si inclina [è incline] verso il Cristo), docili alla sua voce, diventano pescatori, pescano nuovi pesci: è la comunità dei credenti. La Chiesa è una comunità di pescatori.
Le tre vasche in realtà formano un’unica vasca, tutte infatti sono concentriche, e le più piccole sono contenute e generate da quella più grande. Ogni vasca evidenzia un aspetto che è di tutte le vasche o, meglio, dell’unica vasca spirituale.
3.      La Pietra e Pietro
«Ancora si chiamava Pietro, perché non ancora aveva seguita la Pietra», scrive san Girolamo e parlava del Pietro che non aveva ancora imparato a imitare il suo maestro. Imitare è “fare come qualcuno”, allo stesso modo Pietro doveva imparare ad agire come la Pietra agiva. La Pietra è Cristo, non a caso, la sua immagine, nell’icona, è inscritta nella roccia.
Nell’icona, poi, la palma fruttifera si trova dinnanzi al Cristo, radicata e fondata sulla roccia. La palma, pianta paradisiaca, pianta simbolo della santità, simbolizza la Chiesa. E la Chiesa, nel suo rimanere nella roccia-Cristo, è nello stesso tempo protesa verso di lui: lo porge, indica la via per raggiungerlo, sa, infatti, che al Cristo deve tutto e tutto a lui vuole ricondurre.
La roccia unisce il Cristo alla Chiesa: la roccia è l’unità tra lo Sposo e la Sposa. Così l’arco – che è il simbolo veterostestamentario dell’alleanza (Gn 9,8-17), e che, svelato e donato dal Figlio, è lo Spirito – unisce Cristo alla Chiesa nella nuova alleanza sponsale e crea il nuovo utero per la nascita dall’alto. La Palma-Chiesa, d’altra parte, fondata sulla roccia, diventa, in virtù di questa unità, roccia ella stessa.
Il ventre battesimale è, quindi, anche il ventre uterino della Chiesa, che, fecondata dal suo Sposo, genera i suoi figli: i cristiani.
Simone, dunque, (e ogni cristiano egualmente) diventa Pietro per annessione alla Pietra, in virtù del battesimo, che è un battesimo da acqua e Spirito.
Il rapporto tra la Pietra e le pietre è, inoltre, simbolizzato dai monti: al monte Cristo-Pietra corrisponde quello della palma-Chiesa e fra loro i due più piccoli di Pietro e Andrea, anche loro diventano piccole rocce.
Tutto illumina e avvolge la luce increata del Padre, che nell’iconografia è simboleggiata nell’oro. I monti nella simbologia biblica sono il luogo i cui Dio incontra la terra e l’uomo, non a caso nella Bibbia tutte le teofanie avvengono «sul monte». I monti, qui[4], sono come dei rigonfiamenti della roccia, sono degli “embolismi spirtuali”: sono monti allo stato gassoso, come dice il salmo: «Signore, abbassa il tuo cielo e discendi, tocca i monti ed essi fumeranno» (144, 5). Come il Figlio è pieno di Spirito Santo, allo stesso modo, per mezzo del Figlio anche la Chiesa e ogni cristiano riceve in eredità lo Spirito e ne viene riempito. L’umanità è così trasformata, trasfigurata dalla vita divina che la riempie.
4.      «Sulla tua parola»
Lo si è visto, Pietro è un “pesce-pescato pescatore”, tuttavia egli non pesca da sé, ma esegue il mandato di Cristo: «Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 18, 18-20).
Che il mandato del battesimo non sia un’iniziativa degli apostoli è chiarito anche da S. Agostino, il quale, cercando di dirimere la questione del battesimo degli eretici, riconosce il primato dell’azione di Cristo nel battesimo:
In effetti, poiché il battesimo dato da un ministro spregevole vale tanto quanto quello dato da un apostolo, si ammette, di conseguenza, che esso non è né dell’uno e né dell’altro, ma di Cristo. (5,13.15)
Eppure, quando essi battezzano, non battezzano essi, ma colui di cui Giovanni dice: È lui che battezza (Gv 1, 33).[5]
L’azione che compie Pietro (e quella in generale di ogni cristiano) è, dunque, un’azione “simbolica” (in senso forte): vedi Pietro battezzare, ma egli lo può perché Cristo primariamente battezza. In altri termini, Cristo battezza, Pietro “con-battezza”.
Già nel racconto della chiamata alla “pesca di uomini” Pietro getta le reti dicendo a Gesù: «sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5; la parola è il logos, il verbo), come a dire: “Sei tu che peschi attraverso di me”.
L’icona è fedele a questa lettura: il Cristo dà ordine di pescare in virtù della sua parola, cioè in virtù di sé stesso. Il rotolo, infatti, è inscritto nel suo corpo: il corpo di Gesù Cristo è il rotolo stesso dispiegato, egli è il Verbo di Dio manifestato pienamente.
“Sulla Parola” Pietro getta le reti e in virtù della Parola egli pesca, perché l’esca che attira i pesci è la Parola stessa. I pesci non entrano nella rete finché le reti non sono gettate sulla Parola: fino a che Pietro non annuncia Gesù Cristo le reti non si riempiono; quando invece i pesci, attraverso Pietro, ascoltano la voce di colui che ritto in piedi, grida: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me» (Gv 7, 37-38), allora quelli accorrono; come è noto, i pesci hanno bisogno dell’acqua per vivere, ma questa acqua è superiore a qualsiasi altra, questa è «acqua viva» (Gv 7, 37), «acqua di vita eterna» (cfr. Gv 4, 14).
D’altra parte, poi, la Parola è anche la rete con cui i pesci sono pescati. La Parola è come una rete che una volta gettata nel mare «raccoglie ogni genere di pesci» (cfr. Mt 13, 47). La Parola, infatti, è data per raccogliere tutti i figli dispersi e farne un solo popolo. L’annuncio di Gesù raccoglie, anzi Gesù stesso è l’annuncio, è la Parola che raccoglie gli uomini, e li salva, facendone il nuovo popolo di Dio.

5.      Il centro dell’icona
Un’icona ha una struttura spaziale diversa da come perlopiù si concepisce attualmente lo spazio in pittura. A partire da un’impostazione prospettica, il centro è costituito da ciò che si pone dinnanzi all’occhio del pittore, o di colui che guarda, e tutte le figure del quadro sono inserite dentro un gioco di punti di fuga e proporzioni geometriche molto rigidi: guardando un quadro è possibile individuarne subito il centro geometrico.
Un altro modo per focalizzare il centro di un quadro è poi la luce. A partire dall’illuminazione dei personaggi e dei luoghi è possibile individuare il centro di un tale dipinto; tuttavia la luce in questo caso è utilizzata come un elemento scenografico, la luce è usata per enfatizzare il gioco prospettico.
Nell’iconografia non è così. La struttura di un’icona non è prospettica, tant’è che si parla in proposito di “prospettiva rovesciata”, tuttavia, in effetti, nel caso dell’iconografia si tratta soprattutto di rovesciamento della mentalità prospettica, visto che l’iconografia rifiuta l’impianto prospettico come per nulla corrispondente alla natura della sua “rappresentazione” della realtà.
In passato si diceva che prima di Giotto gli artisti non conoscessero la prospettiva, ma, come dice Pavel Florenskij, gli artisti prima di Giotto non volevano usarla, perché non la ritenevano degna di entrare nella rappresentazione della realtà[6]. Dunque, nell’iconografia l’impianto geometrico tipico della prospettiva è del tutto assente, soprattutto perché si rifiuta la rappresentazione geometrica dello spazio.
In questo modo, in un’icona possono essere presenti più centri, perché lo spazio non è quello della “res extensa”, quello omogeneo della geometria euclidea. Nell’iconografia lo spazio, piuttosto che quantitativamente, è connotato qualitativamente: i vari punti, i vari soggetti posseggono delle qualità interiori, più che geometriche. Così avviene che oggetti “prospetticamente” più lontani siano proporzionalmente più grandi di oggetti più vicini; così avviene, anche che il centro dell’icona non sia geometricamente posizionato, né che la luce sia utilizzata “scenograficamente”.

In questa icona, Cristo è il pesce, è l’esca, è la rete, è il pescatore. Egli è la figura più grande, è suo il movimento più ampio, anzi egli è il principio di ogni movimento, egli è al centro di tutti movimenti inscritti nell’icona e ne costituisce un elemento catalizzatore: i pescatori agiscono sul suo comando, i pesci si muovono alla sua Parola, la palma verso di lui tende, al suo tocco l’acqua è vivificata dallo Spirito, davanti a lui “i monti saltellano come arieti” (cfr. sal 114). Per cominciare, quindi, si può dire che sia Cristo il “centro” dell’icona.
Ma cosa vuol dire questo, considerando che nell’icona il Cristo è posto a sinistra, in una posizione laterale? Egli è al centro, ma nello stesso tempo è a sinistra, come è possibile? E, poi, come mai proprio a sinistra?
Guardando l’icona Cristo è a sinistra. Ma l’icona ci sta di fronte, e questo comporta che per chi sta di fronte a noi – cioè per chi è al di là dell’icona – il Cristo è a destra[7]. Dovremmo dire quindi che Cristo, in realtà, sta a destra.
Siamo giunti così a cambiare lato, ma non si è chiarito ancora quale sia il senso.
Per comprendere occorra capire a destra di cosa do di chi il Cristo si pone. Ci risponde il Vangelo: Gesù Cristo è alla destra del Padre (cfr. Mc 16, 19; Lc 22, 69).
Ora, questo suo essere “alla destra del Padre”, lo pone però al centro per la vita dell’uomo: egli, infatti, è il “mediatore”: «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me». In questo modo, egli sta alla nostra sinistra, ma nello stesso tempo è per noi al centro.
Il Figlio, dunque, apre al Padre, che è un altro centro dell’icona, anche se non lo si vede, perché del Padre non c’è figura o immagine. La sua sola immagine (eikon, icona), infatti, è il Cristo: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). E Gesù dice: “Chi vede me, vede colui che mi ha mandato” (Gv 12,45).
Ma nell’icona è posto anche un terzo centro: lo Spirito Santo. Anch’egli è al centro, ma in altro modo. Dello Spirito è sempre difficile parlare, perché non se ne ha neanche nella Bibbia una immagine distinta: lo Spirito è inafferrabile. Nella Bibbia non se ne parla in figure fisse: è vento, è tuono, è nube, è colonna di fuoco ed è fiammella, è colomba, è luce; è tutte queste cose, ma nessuna lo definisce compiutamente. Egli è effuso, e per questo è diffuso; allo stesso modo in questa icona lo Spirito è onnipresente e permea ogni ambito, ogni figura: è il vento che vivifica l’acqua e muove la barca, è l’arco che copre, è il ponte che unisce il Cristo alla Chiesa, è la rete che raccoglie i pesci. Lo Spirito è la forza che agisce e che muove ogni cosa.
Nella storia della teologia non si è mai affrontato in modo diffuso e veramente approfondito il tema dello Spirito Santo. Per la Chiesa latina si parla addirittura di «dimenticanza dello Spirito». Eppure, lo Spirito è, se si può far passare la definizione, nella Trinità la persona “più trinitaria”, perché se pure è possibile parlare del Padre senza parlare del Figlio e dello Spirito, o anche parlare del Padre e del Figlio senza menzionare lo Spirito[8], non si può, tuttavia, in nessun caso parlare dello Spirito senza parlare nello stesso tempo e del Padre e del Figlio.
Non c’è, dunque, contraddizione nel dire che il centro dell’icona è il Cristo e lo Spirito, e che questi due centri rivelano il “primo”, che è il Padre. Centro dell’icona è la Trinità: il Padre è ciò verso cui tutto tende, egli è origine e fine; il Figlio è centro, perché è mediatore, attraverso di lui si giunge al Padre; lo Spirito discende dal cielo e muove ogni cosa per ricondurla verso il Padre. Tutto viene riassunto nell’”economia” trinitaria.
6.      Il linguaggio del corpo
Nell’iconografia tutte le parti corporee non coperte da veli posseggono un’importanza capitale, il volto prima di tutto, le mani in secondo luogo, poi i piedi. Bisogna però aggiungere che anche le vesti sono importanti e dense di senso.
6.1.   Il volto e il capo
I punti più importanti di un’icona sono i volti, tant’è che esistono icone costituite da soli volti. Questo avviene perché il volto è una sorta di “icona dell’icona”. Come dicono i cristiani d’Oriente, nel volto è racchiuso il “sembiante”: la somiglianza al “canone”, al modello la si vede nel volto (già si è visto che “canone” sta principalmente per “canone scritturistico” o, ancora meglio, per piena corrispondenza la Vangelo).
Ora, l’iconografia cristiana condensa nel volto moltissimi dei suoi elementi tipici: lo schiarimento, la prospettiva inversa, la proporzionalità simbolica, il contegno stilistico.
Lo schiarimento, che è la tecnica utilizzata in iconografia per dipingere le immagini, consiste nel partire da un fondo scuro per poi passare, attraverso la deposizione strati di colore successivi, a tinte più chiare fino ad arrivare a linee completamente bianche, chiamate “luci”. Ora, questa tecnica è stata scelta consapevolmente nell’iconografia cristiana, perché meglio corrispondeva alla rivelazione; come questa, infatti, nello schiarimento, che potremmo anche definire illuminazione[9], il mistero di Dio viene alla luce, e si mostra.
I volti vengono raffigurati in tre-quarti, mai di profilo, mai di fronte. Questo perché i due occhi devono essere ben visibili e il “capo” è contemplato nella sua interezza. La prospettiva inversa, di cui si è già parlato, nei volti è applicata, per questo nelle icone insieme al volto del capo è visibile, in modo prospetticamente scorretto, anche la nuca. Come dice Pavel Florenskij, nella prospettiva inversa c’è perfetta consonanza alla vista umana, che è sempre bioculare e sempre in movimento, così l’uomo non vede mai una persona o un oggetto come in una foto, ma con visioni plurime e contemporanee.
La proporzionalità simbolica è tipica dei volti (e del corpo) in iconografia. Il volto non è raffigurato naturalisticamente, le sue proporzioni non sono corrette dal punto di vista antropometrico.
Il volto è luogo simbolico per eccellenza, esso è luogo di trasfigurazione. Per il santo, luogo di trasfigurazione cristica, per il Cristo luogo di manifestazione della sua divino-umanità. È per questo stesso motivo, i personaggi “non trasfigurati” (i “non santi”) vengono raffigurati di profilo, piatti. Infatti, come poco si ponevano alla luce («Si ostinano a fare il male, progettano di nascondere tranelli; dicono: "Chi potrà vederli?"», Sal 64, 6), allo stesso modo in loro poco c’è da contemplare.
I volti hanno, inoltre, un’espressività tipica. Si definisce spesso “ieratica”, ma con questa definizione non si fa altro che testimoniare l’incomprensione “moderna” verso l’iconografia, e verso l’arte liturgica in generale. Si dice ieratica, ma in realtà si dà una definizione per negazione: ieratica sta per “neutra”, cioè né allegra né triste.
A proposito dei volti nelle icone si dovrebbe parlare, invece, di “contegno”. Contegno non è impassibilità, ma, al contrario, è “pathos” in pienezza; non è passività, ma al contrario, è piena attività. Il contegno non è dispersione, ma è energia, attività e passione concentrate, contenute, eppure agite. Il contegno è proprio dell’atleta, il quale, né prima della partenza – quando ancora sono trattenute –, né alla fine della corsa – quando sono già esaurite –, pieno di forze, corre.
Nell’iconografia, i volti di Cristo, in primo luogo, e poi dei santi, sono volti pieni di tutti i sentimenti, ma senza dispersione, né dissipazione, né prevaricazione. Per questo motivo, le icone sanno parlare all’uomo in qualsiasi situazione o stato d’animo egli si trovi.
6.2.   Le mani
Anche le mani sono molto importanti in iconografia. Nell’arte moderna le mani hanno una funzione perlopiù “indicativa”, cioè hanno una funzione “segnica”. Siamo ormai abituati a vedere mani di santi che indicano il cielo, o mani giunte in preghiera, o mani che reggono una penna, nell’atto di scrivere. Nell’iconografia le mani vengono definite “parlanti” e non hanno una funzione accessoria, ma fondamentale. D’altra parte nella sua vita, Gesù ha spesso predicato semplicemente muovendo le mani, come nel caso della adultera, in cui egli scrive sulla sabbia, o nei vari miracoli in cui impasta terra, o manovra gli arti dei malati e così via. Le mani, dunque, sono esse stesse luogo di rivelazione di annuncio.
6.2.1.      Le mani di Cristo
In questa icona, le mani di Cristo – lo si è già visto – hanno posizioni particolari: la destra è protesa e dice: «Ichthys!», «Io sono il pesce!». Nel protendere il braccio, la veste rossa si incurva, si gonfia. Da sempre questo rigonfiamento della veste sotto il braccio viene letto come il segno della “passione”. In questo contesto, però, aggiunge qualcosa in più: Cristo si è fatto “Pesce”, nella “condizione di servo”, e si fa pesce da mangiare, si fa cibo per l’uomo nell’offerta totale di sé, sulla croce. Per questo, dicendo «Ichthys!», la veste sotto il braccio s’incurva.
La mano sinistra, invece, è poggiata sul ventre e regge il cartiglio arrotolato, che è immagine del suo messaggio, del Vangelo. Il cartiglio è iscritto nel suo corpo: egli stesso è il messaggio, egli è il Verbo. Ma il cartiglio incastonato nel suo corpo, manifesta anche un senso ulteriore: il messaggio che è il Cristo, è un messaggio che si è fatto cibo per l’uomo. Come Giovanni nell’Apocalisse, infatti, il cristiano può dire: «Presi quel piccolo libro [...] e lo divorai».
6.2.2.      Le mani degli apostoli
Le mani degli apostoli, benché sembrino esclusivamente intente a manovrare la rete, sono anch’esse “parlanti”. In particolare le mani di Pietro simbolizzano la modalità della “pesca di uomini”: con la sinistra, orientata verso il basso, si rivolge ai pesci e con la destra mostra loro il Cristo. 
È il duplice movimento della predicazione, del ministero apostolico (“apostolo” significa «inviato»): la sinistra simbolizza il movimento di “invio” («Andate in tutto il mondo...»); la destra simbolizza il fine della predicazione, cioè il “rimando a Cristo” («...e proclamate il Vangelo», Mc 20, 15).



6.3.   I piedi
I piedi di Cristo poggiano su due rocce, che sono come due piccoli monticelli. I piedi rivelano il fatto che egli “viene”, egli è “colui che deve venire”. Ma come giunge? «Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline» (Ct 2,8).
I piedi poi non sono evidenziati a caso. Il compito del messaggero è il cammino verso il destinatario, e gli organi principali del cammino sono i piedi: il messaggio ha bisogno di piedi che lo portino. Così Cristo, oltre che dal cartiglio, è riconosciuto come il “messaggero” nei suoi piedi, infatti, come è scritto: «Sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza». (Is 52,7).
I piedi, poi, sono il segno dell’umanità: sono il luogo corporeo della forza dell’uomo, quando sono saldi, ma anche, quando non lo sono, della sua debolezza. I piedi, ben in vista, sono il simbolo della vera umanità di Cristo, un’umanità però rinnovata, rinsaldata: egli infatti “ha i piedi stabiliti sulla roccia” (cfr. Salmo 40,3), e “come i piedi di una cerva sulle alture cammina” (cfr. Ab 3,19). E tuttavia, i piedi forti di Cristo si sono fatti deboli, egli ha abbracciato la morte, per questo motivo l’unzione di Betania (Gv 12, 1-8) ha un valore profetico: annuncia la morte e sepoltura di di Gesù.
7.      La fruizione dell’icona
Qualsiasi icona è strutturata in modo tale da riuscire a parlare nel modo in cui ciascuno può recepirla. L’icona non forza nessuno a comprendere tutto, né ostenta tutto di sé. Tutti i suoi segreti possono essere colti in modalità e tempi differenti, nel modo più congeniale a chi vi si ponga dinnanzi. Come dicono i cristiani d’Oriente, l’icona è una finestra: ci si può anche fermare a guardare il telaio, il vetro, il materiale della finestra, e magari questo può anche soddisfare chi la guardi, tuttavia il suo fine primario è far passare la luce, un’icona è veramente tale se riesce  far passare la luce. La sua bontà (e bellezza) risiede nella sua capacità di essere trasparente alla luce, alla luce del vangelo.
Si dice questo, perché potrebbe sembrare che quello che si è detto sin qui sia eccessivo, che ci siano troppe cose dentro questa icona. Ma la grande maggioranza dei particolari, e della loro significazione, presenti nell’icona sono stati, realmente, recepiti dall’iconografa attraverso il canone iconografico attestato. Se vi è ricchezza di senso in ogni particolare, benché minino, questo è un patrimonio che viene all’iconografia da lontano, precisamente dalla stessa tradizione iconografica cristiana. Non si tratta, cioè, di inserzioni, attribuzioni o allegorizzazioni escogitate dall’iconografa.
Compito dell’iconografa è stato, invece, armonizzare gli elementi. Utilizzando una metafora linguistica, si potrebbe dire che le regole grammaticali e il lessico sono della tradizione iconografica, dell’iconografa, invece, sono le scelte sintattiche, l’uso di quegli elementi. Occorre, peraltro, ricordare che il tema di questa icona, sebbene i suoi elementi non siano radicalmente nuovi, costituisce una sorta di novità – non ci sono icone a noi pervenute sulla “pesca di Pietro e Andrea” –. L’iconografa ha dovuto, pertanto, rinvenire un modello iconografico coerente con la grammatica iconografica e pertinente al nuovo tema.
Non ci si pone, inoltre, la questione se sia o no un’opera d’arte, né se l’iconografa sia o no un’artista. L’iconografo è di per sé un esecutore, un trasmettitore, perché sa che l’opera che egli compie lo precede e lo supera, allo stesso modo in cui il messaggio evangelico, che costituisce il centro della sua arte, fonda e apre il suo operare.
L’iconografo sa di non essere il cominciamento assoluto della sua arte, ma soltanto un anello della catena della tradizione ecclesiale. La sua opera, d’altra parte, è opera d’arte solo se non appartiene all’artista, ovvero se riesce ad essere un’opera ecclesiale, cioè avente la sua origine e il suo sbocco nella vita della Chiesa.
L’icona, lo si diceva, è come una finestra, la sua consistenza deve essere “poco ingombrante”, deve essere trasparente, altrimenti non è una vera icona.






[1] Si rimanda, per una descrizione dettagliata dell’area archeologica e della chiesetta, al documentato articolo: F. Ardizzone – R. Di Liberto – E. Pezzini, Il complesso monumentale in contrada “Case Romane” a Marettimo (Trapani). La fase medievale: note preliminari, in S. Patitucci Uggeri (a cura di), Scavi medievali in Italia, 1994-1995, «Atti della prima conferenza italiana di archeologia medievale (Cassino, 14-16 dicembre 1995)», Herder, Roma 1998, pp. 387-424.
[2] Il titolo dell’icona è, dunque, molto calzante: “la pesca di Pietro e Andrea” può voler dire sia il loro pescare che il loro essere pescati.
[3] «Spirito e vita» è un’endiadi: acqua e Spirito non sono semplicemente accostati, bensì identificati – per questo motivo nell’icona l’acqua è “viva” e si muove.
[4] La forma dei monti è ripresa in modo fedele dai mosaici di Monreale.
[5] Agostino, Sul Battesimo 6,28.54.
[6] Cfr. P. Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti sull’arte, Gangemi, Roma 1990.
[7] Anche questo è un “rovesciamento” significativo: nell’icona non è l’osservatore la causa della visione, egli vi si trova immesso, ma la realtà che si dà a vedere precede la visione dell’osservatore. Non c’è un adeguamento all’occhio o alla visione dell’osservatore, ma al contrario si richiede una “conversione” dello sguardo.
[8] Si può – come è successo nella storia – parlare solo di Dio (Padre), si può parlare del Padre e del Figlio senza menzionare lo Spirito (in tutte le controversie cristologiche il fulcro della questione era il rapporto tra Dio Padre e Cristo), si può perfino imbastire una controversia sullo Spirito, ma senza considerarne l’azione, come è avvenuto nel caso della controversia sul Filioque (la processione solo dal Padre o dal Padre e dal Figlio).
[9] Infatti, in Gesù Cristo, «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito» (1 Cor 2, 9-10).

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